Essere visti: vulnerabilità, vergogna e desiderio nella relazione terapeutica
Nel quadro L’indiscreto di Egon Schiele, una figura si offre nuda allo sguardo, ma non senza tensione. Il corpo è esposto, sì, ma non completamente abbandonato. C’è qualcosa di sospeso tra il voler essere visto e il voler sfuggire: lo sguardo dell’altro diventa parte integrante dell’opera, come se fosse il vero soggetto invisibile del dipinto. Questa ambivalenza — tra il desiderio di essere guardati e il timore di esserlo troppo — è profondamente umana, e spesso è al centro del lavoro psicoterapeutico. Tutti noi, fin dall’infanzia, cerchiamo uno sguardo che ci riconosca. Non uno sguardo qualsiasi, ma uno capace di cogliere qualcosa di vero, anche nelle parti fragili o “scomode”. Questo bisogno non è solo affettivo: è esistenziale. Essere visti significa esistere, avere diritto di parola, sentirsi reali. Ma non sempre questo accade nel modo giusto. Alcune persone sono state viste troppo — invase, interpretate, controllate. Altre, troppo poco — trascurate, ignorate, rese invisibili. In entrambi i casi, lo sguardo dell’altro ha lasciato un’impronta difficile da elaborare. E così, nella vita adulta, ci portiamo dietro una tensione profonda: vogliamo essere compresi, ma temiamo che ciò che mostreremo sarà giudicato o rifiutato. Quando una persona entra in terapia, porta con sé questa storia silenziosa dello sguardo. Spesso ciò che trattiene non è la mancanza di parole, ma la vergogna. Vergogna di sentirsi “troppo” o “non abbastanza”. Vergogna di avere emozioni considerate sbagliate: rabbia, invidia, bisogno, dolore. Per difendersi, si costruiscono maschere: immagini di sé più accettabili, più “controllate”. Ma queste maschere, nel tempo, diventano gabbie. E la terapia — se autentica — è proprio il luogo in cui lentamente si può iniziare a toglierle. Non per scoprirsi “nudi” in modo violento, ma per ritrovare un contatto vero con ciò che si è, accompagnati da uno sguardo che non pretende, ma accoglie. Nella relazione terapeutica si crea uno spazio unico: non è né la solitudine interiore, né il mondo sociale ordinario, ma un luogo terzo. Qui, il terapeuta non guarda per giudicare, ma per comprendere. Non interpreta subito, non invade: si siede accanto e testimonia. In questo tipo di sguardo — discreto, presente, non intrusivo — può accadere qualcosa di trasformativo. Lentamente, il paziente può iniziare a portare in seduta ciò che normalmente nasconde: emozioni incoerenti, pensieri disturbanti, desideri proibiti. E scoprire che non solo vengono tollerati, ma che proprio lì può nascere un senso nuovo di sé.